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martedì, ottobre 10, 2006

Meno tasse, meno stato, più crescita economica

In questa intervista riportata dall’ Opinione, Grover Norquist descrive brevemente le linee guida della sua azione politica: meno tasse => meno stato => più crescita. In un modo talmente lucido e talmente ovvio da sembrare banale.

In effetti l’ovvietà di questa relazione è senza dubbio condivisa da chi, come me, ha avuto l’opportunità di sentire Norquist dal vivo in una breve tavola rotonda organizzata da Ideazione; da chi, ancora pochi per la verità, a destra condivide le idee liberali liberiste e libertarie; in ultimo, da chi, forse, anche da sinistra intravede la logica consequenziale di questa posizione.

Con altrettanta ovvietà queste persone, come me, intravedono che l’impossibilità per l’Italia di cambiare sta tutta nella scarsa diffusione e soprattutto comprensione della razionalita' di questo meccanismo.

Ancora troppo pochi infatti condividono o comprendono il fatto che eliminare la disponibilità della leva dell’aumento della pressione fiscale porta necessariamente alla riduzione del peso dello Stato: se le tasse non possono essere aumentate e, anzi, vengono diminuite, l’unico modo per non vedere esplodere il deficit è quello di ridurre le spese. Non ci si aspetta che tale riduzione sia immediatamente successiva alla decisione di non aumentare o addirittura ridurre le tasse, ma, dopo un periodo di probabile aumento del deficit, l’unico modo per riportare l’equilibrio nei conti pubblici sarebbe quello di riformare lo Stato, riforma che necessariamente dovrebbe produrre una riduzione del suo peso. La necessità di riduzione delle spese poi, è probabile generi per prima cosa il taglio del sostegno improduttivo all’economia e la riduzione della burocrazia che deriva dalla troppa regolamentazione di questa.

Ma soprattutto pochi comprendono (o vogliono comprendere) il fatto più rilevante, ovvero che il circolo virtuoso innescato dalla riduzione dell’imposizione fiscale, che implica un minore peso dello Stato, avrebbe come effetti immediati da una parte un aumento del reddito disponibile per imprese e persone e, quindi, una maggiore propensione agli investimenti e ai consumi; dall’altra, una sicura riduzione dei prezzi in quanto la tassazione si trasforma sempre in una alterazione (maggiorazione) del prezzo di qualsiasi bene, rispetto al valore che altrimenti si determinerebbe in un mercato libero e concorrenziale.

Naturalmente si può discutere di quanto “minimo” debba essere lo stato, quantificare quindi esattamente quale debba essere la sua presenza e, soprattutto, dove tale presenza debba essere indirizzata, ma sempre dando per scontata la condivisione dell’idea che essa debba essere minima.
Il punto è che purtroppo, siamo ben lungi dal poter discutere, magari tra destra e sinistra, di quantificazione dell'intervento minimo, dal momento che non si condivide, a destra come a sinistra (questa incapacità di abbandonare l’idea di stato paternalista è trasversale purtroppo) nemmeno il fatto che lo stato debba occupare una minima parte delle sfere della vita delle persone.

Ascoltando Norquist ci si scontra palesemente contro questa realtà probabilmente tutta italiana: per mancanza di informazione, per la tutela sempre e comunque prima di tutto dei propri privilegi, per cultura, quando purtroppo per cultura si intende l’accettazione acritica di tutto quello che proviene dall’ideologia dominante dell’ambiente in cui ci si muove, non si riesce nemmeno a condividere l’idea, per quanto ovvia, che meno tasse significano meno stato e meno stato più libertà di azione e di idee, più crescita economica e sociale, maggiore diffusione del benessere.