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martedì, ottobre 24, 2006

Un'altra ipotesi sul perché Prodi continua imperterrito per la sua strada

Pare che la domanda alla quale ho cercato di dare una risposta (seppure per molti aspetti ironica) nel mio post di fine mattinata, ovvero per quale motivo Prodi e i suoi si ostinino a dichiarare che tutto va bene, incuranti delle critiche, anche quando è dimostrato dai fatti oltre ogni ragionevole dubbio esattamente il contrario, sia sempre più diffusa.

Oggi sull'Opinione a questa stessa domanda Diaconale azzarda una riposta dicendo che semplicemente Prodi, senza un partito suo, può permettersi di perseguire i propri interessi personali, ovvero rimanere il più a lungo possibile alla presidenza del consiglio e diventare indispensabile per chi nel frattempo, proprio a causa delle sue decisioni ha perso consenso (Margherita e DS) voglia continuare a rimanere al governo.

Personalmente ritengo che questa chiave di lettura sia quasi meno realistica di quanto possa esserlo la mia di questa mattina nella quale sostengo che Prodi, in realtà in conbutta con tutte le forze moderate sia della maggioranza che della opposizione, si prefigge il vero obiettivo di spazzare via l'estrema comunista dallo scena politica italiana. Magari però ha potuto rappresentare il giusto presonaggio cui affidare questo incarico proprio perché orfano di un partito suo!

Non riesco a vedere chiaramente la relazione per la quale attraverso l'applicazione di una finanziaria strampalata e dannosa, la quale sta facendo perdere consenso non solo alla Margherita e ai DS ma anche lui , Prodi dovrebbe fare il proprio interesse: se tira troppo la corda Margherita e DS potrebbero sempre decidere di costurire un ponte con l'opposizione e rimanere comunque al governo, ma questa volta senza di lui...e senza i comunisti.

E ricadremmo nel risultato da me ipotizzato per il quale si creerebbe una coalizione trasversale per fare alcune riforme necessare escludendo la sinistra radicale. Che Prodi ne sia o meno cosciente.

Come invento il complotto per eliminare l'estrema comunista

Devo proprio ammetterlo, sentire tanto parlare di complottismo a destra e a manca mi ha contagiata. Da Berlusconi prima, a Prodi ora, per non parlare dei fatti internazionali per i quali non manca mai una teoria del complotto che riesca a spiegare in modo più pittoresco, e per ciò stesso più credibile, in un epoca nella quale il sensazionalismo è il pane quotidiano, ciò che è avvenuto, anche io non ho resistito. Durante il fine settimana lungo trascorso circondata dal malessere diffuso del nord est di questo periodo e dalla sua famigerata nebbia che, offuscando ogni punto di riferimento, probabilmente offusca anche la razionalità delle persone, mi sono convinta che si, oltre ogni ragionevole dubbio, esiste un motivo, per quanto difficile da trovare, per tutto quanto, compresi Prodi e il suo esecutivo!

Tutto è nato dopo due serate trascorse con due amiche diverse a discutere della situazione politica attuale: pur essendo le due amiche in questione una di destra e l’altra di sinistra entrambe condividevano con me e quindi tra loro, sia l’analisi (e il giudizio pessimo) riguardo all’operato del governo fino a questo momento, sia soprattutto le soluzioni in senso libertario ai problemi del paese, in netta contraddizione quindi con le scelte dell’esecutivo.

Felice di poter constatare quanto si possa essere vicini pur se schierati su fronti politici opposti e quindi ottimista sull’effettivo spazio che esiste in questo momento storico per la diffusione e il radicamento di tutto ciò che va nel senso di riduzione del peso dello stato, di liberismo in economia, di libertà di scelta secondo la propria coscienza in ambito civile ed etico, ho scoperto di trovarmi altrettanto d’accordo con loro nel notare quanto fossero in stridente contraddizione le dichiarazioni ufficiali del governo di fronte all’evidenza dei fatti.

Il malcontento diffuso sia da parte dei cittadini che interno alla stessa maggioranza, le critiche di economisti anche dell’area politica di riferimento del governo, il monito del governatore della Banca d’Italia, la sfiducia internazionale nel sistema Italia della stampa e delle Agenzia di Rating che hanno palesato questa sfiducia in una abbassamento del merito creditizio dell’Italia a causa dell’incapacità ancora una volta di accendere il motore dello sviluppo e della crescita, ma anche a causa del mancato risanamento con riforme strutturali, non può non dimostrare inconfutabilmente a tutti e quindi anche a Prodi, Padoa-Schioppa e i suoi che per quanto discutibili non sono certo degli stupidi, che questa finanziaria così concepita è inutile e soprattutto dannosa per il raggiungimento degli scopi che loro stessi continuano imperturbabili a dichiarare come prioritari, ovvero risanamento equità e sviluppo.

Insomma non sembra plausibile pensare che Prodi e TPS continuino a sostenere, incuranti delle critiche, che la finanziaria sia giusta, che il risanamento si raggiunga con semplici tagli e aumenti della tassazione, che la crescita possa essere sostenuta con un aumento dell’imposizione fiscale e con norme che vanno nel senso dell’inasprimento dei controlli introducendo la presunzione di colpevolezza (e non quindi come sarebbe giusto fosse, di innocenza) nei confronti del cittadino da parte dello stato, che le imprese siano aiutate richiedendo loro la trasformazione di un debito futuro in un esborso certo ed immediato di soldi reali, per altro appartenenti ai cittadini e via dicendo….Tutto questo non è plausibile e quindi mi appare evidente (come lo sarebbe per qualsiasi complottista consumato) che ci debba essere un qualche motivo non dichiarato che giustifichi questi assurdi comportamenti.

Così comincia la mia ricerca spasmodica di quale possa essere questo motivo, e come nella formulazione di ogni teoria che si rispetti (anche di quelle che non si rispettano come quella della cospirazione) l’illuminazione arriva inattesa leggendo il Corriere di domenica: TPS, in una sua dichiarazione al convegno Glocus a Frascati afferma che il ceto medio dovrebbe festeggiare perché, dalla morte di Carl Marx per la prima volta si sono convinti 2 partiti della sinistra radicale ad accettare la responsabilità di governo È naturale che a colui che non è avvezzo a scovare evidenze della propria teoria in ogni dove, questa dichiarazione potrebbe sembrare semplicemente una nuova assurdità in contraddizione con i fatti, e invece no, per me novella complottista che utilizza pedissequamente appunto il metodo cospirazional-scientifico, è la prova provata del perché questo governo si ostina a sostenere una finanziaria tanto invisa a tutti: l’eliminazione dell’estrema comunista dallo scenario politico italiano.

E allora capisco il messaggio cifrato di TPS: il ceto medio dovrebbe essere felice del fatto che i comunisti sono finalmente al governo perché questo è il modo migliore per ammansirli e renderli inoffensivi (l’esperienza della Lega Nord secessionista che riscuote molto consenso al nord, che diventa partito moderato con relativa perdita di consenso e smussamento delle idee più radicali –anche se a mio parere piuttosto innovative a differenza di quelle dei comunisti, ma tant’è –durante e dopo l’esperienza di governo dovrebbe insegnare); il ceto medio dovrebbe essere felice che i comunisti abbiano accettato la responsabilità di governo e soprattutto che abbiano contribuito in modo così determinante (e direi quasi esclusivo) alla stesura di questa finanziaria classista che va contro lo sviluppo e che deprime la meritocrazia, perché tale responsabilità nel governo e diretta nella finanziaria farà in modo che, se l’Italia raggiungerà il baratro economico sarà facilmente ravvisabile di chi sia la colpa con conseguente naturale eliminazione del colpevole dalla scena politica italiana.

Ma non è finita qui: dall’alto della mia ormai chiara comprensione dei fatti, ritengo che quello descritto sia lo scenario catastrofico, che quindi ha poche probabilità di accadere. Immersa nella vena di ottimismo datami dalla constatazione che c’è più spazio per le idee libertarie sia a destra che a sinistra di quanto mi immagini, decido che lo scenario più probabile per raggiungere l’obiettivo di concludere definitivamente l’esperienza comunista in Italia, disegnato dalle forze moderate non solo della maggioranza ma anche dell’opposizione (e qui sta il complotto), è invece quello secondo il quale lo strumento della “finanziaria dei comunisti” ideato da Prodi e TPS, serva a compattare il consenso attorno ad una coalizione allargata che promuova e applichi le idee comuni in senso libertario, che peraltro è la stessa finanziaria a suggerire in modo quasi scontato, tanto è lesiva delle libertà individuali civili ed economiche e tanto è classista.

Ecco quindi svelato il mistero di tale palese contraddizione della Finanziaria 2007 con gli obiettivi reali di risanamento equità e sviluppo che il governo continua a sostenere verranno perseguiti nonostante empiricamente si dimostri il contrario. È già tutto previsto e disegnato per poter raggiungere il vero obiettivo, ossia il rinnovamento della cultura politica dell’Italia promuovendo le idee libertarie e eliminando le estreme: la finanziaria intrisa di comunismo ha il compito di suggerire in antitesi le idee sulle quali si dovrà costruire il nuovo consenso sia a destra che a sinistra, ovvero le idee liberali e libertarie (in seguito naturalmente tra destra e sinistra si dovranno fare gli opportuni distinguo, ma almeno l’humus culturale deve essere il medesimo e in questo senso); le forze moderate dovranno farsi carico di incanalarlo nei binari delle riforme. Se però la classe politica sia di destra che di sinistra non sarà in grado di pilotare questo segnale ecco che scatterebbe lo scenario catastrofico per il quale la finanziaria intrisa di comunismo si farà e l’Italia arriverà al baratro; anche in questo caso i comunisti, primi responsabili delle politiche contenute in essa, saranno comunque messi alla gogna ed esclusi dalla scena politica.

Che ne dite, non è quasi quasi bello pensare che potrebbe davvero essere così? Poi però mi rendo conto che il presupposto dal quale sono partita, ovvero che la contraddizione è evidente perché Prodi e TPS non sono degli incompetenti, in effetti non è poi così realistica e quindi la mia teoria complottista purtroppo crolla.

martedì, ottobre 17, 2006

Giampaolo Pansa e Harry Wu: due evidenze di come funziona l’ideologia comunista

Come un mese fa, anche oggi una bella notizia su quanto è liberale la sinistra radicale. Giampaolo Pansa, antifascista e storico della Resistenza, presentava ieri a Reggio Emilia il suo ultimo libro “La grande bugia”; un mese fa, Harry Wu, scrittore scappato dalla Cina dopo 19 anni di agonia nei campo di concentramento, presentava a Roma (quartiere San Lorenzo) la traduzione in italiano (dopo 15 anni dalla pubblicazione del medesimo libro in America!) del suo libero “Laogai: i gulag cinesi”; in entrambi i casi la sinistra radicale ha impedito il normale svolgimento delle conferenze utilizzando i soliti metodi illiberali che la contraddistingue: la contestazione violenta e l’impedimento con la forza della libera epressione della propria opinione se questa non è organica all' ideologia comunista.

Un mese fa Harry Wu si deve recare in una libereria di San Lorenzo per presentare il suo libro, ma viene avvertito preventivamente che alcuni non meglio identificati esponenti della sinistra radicale si sono scaraventati contro coloro che sono intervenuti per la presentazione, aggredendoli e picchiando chi non riesce a scappare. Le forze dell’ordine, intervenute troppo tardi, non riescono a mettere nessuno in stato di fermo.

Ieri Pansa si è visto arrivare, alla conferenza a Reggio Emilia per la presentazione del suo ultimo libro, i soliti esponenti della sinistra radicale che con il loro comportamento aggressivo hanno impedito il prosieguo della conferenza. La situazione ha richiesto l’intervento delle forze dell’ordine che hanno sgomberato la sala.

Ma cosa dicono di tanto assurdo nei loro libri questi due scrittori da non meritare nemmeno di essere pronunciato ad alta voce di fronte ad un pubblico interessato ad ascoltare? Ecco svelato il mistero: queste due persone (che in quanto tali comunque meriterebbero di poter esprimere liberamente le loro idee di fronte ad interlocutori interessati), sebbene attraverso esperienze totalmente diverse, mettono in discussione in qualche modo il comunismo.

L’esperienza di Wu mette in discussione, udite udite, addirittura il regime comunista della Cina, che calpesta in ogni modo i diritti umani e addirittura utilizza campi di concentramento per coloro che vengono dichiarati dissidenti (anche solo, appunto, per avere espresso una propria opinione critica verso il regime –ricorda gli stessi metodi utilizzati a San Lorenzo vero? –o per voler esercitare la libertà, per noi scontata, di culto come nel caso di Wu).

L’esperienza di Pansa invece, si permette di mettere in discussione l’intoccabile storia della resistenza italiana che pare appartenere soltanto ai comunisti, mostrando, guarda un po’, che l’antifascismo è stato esperienza plurale di quanti (liberali, democratici, repubblicani, persino monarchici,ma comunque lontani dall’esperienza comunista) abbiano difeso la libertà, anche in contrasto proprio con i comunisti che –e qui davvero Pansa si spinge troppo, troppo oltre perché i compagni estremisti possano tollerare di lasciarlo parlare –utilizzando la resistenza antifascista come base della rivoluzione, tentarono di sostituire il regime fascista con il regime comunista commettendo atti di violenza nei confronti di coloro che speravano di liberarsi di una dittatura non certo per sostituirla con un’altra.

È davvero triste vedere che esistono ancora persone che in nome dell’ideologia comunista si spingono a tali livelli di intolleranza da calpestare quelle libertà che dovrebbero essere ormai radicate nella nostra società, è triste rendersi conto di come, ancora, la propaganda di partito possa accecare completamente le persone e anestetizzare qualsiasi tipo di pensiero libero e apertura a conoscenze altre rispetto a quelle maturate fino a quel momento.

La mancanza o addirittura il rifiuto di ogni confronto perché si è convinti di detenere la verità assoluta, semplicemente tacciando di fascismo qualsiasi cosa vada contro l’ordine delle cose che ci è stato inculcata, non è certamente segno di superiorità antropologica o morale che sia, bensì di intolleranza, chiusura mentale o paura. L'unica certezza è che, qualunque sia il motivo del rifiuto del confronto, il risultato che si vorrà ottenere sarà sempre quello di cercare di reprimere quanto più possibile gli spazi per l'esercizio della libertà di opinione di chi non la pensa come noi.

E ritengo che il fatto che notizie del genere non vengano gridate dalla stampa (nelle testate online di oggi solo il Corriere riporta la notizia per Pansa e un mese fa solo la Padania e qualche giorno dopo Libero, hanno riportato la notizia per Wu), dimostra semplicemente, se ce ne fosse ancora bisogno, che purtroppo in Italia il fascismo (ops! comunismo) è ancora diffuso.

lunedì, ottobre 16, 2006

Presentazione del Manifesto "Diamo un' anima libertaria al centro destra" promosso dai Riformatori Liberali: considerazioni di una simpatizzante

La sala è piccola ed è davvero gremita di gente...direi a occhio circa centocinquanta persone, che per una conferenza stampa quale voleva essere la presentazione del manifesto "Diamo un'anima libertaria al centro destra" proposto dai Riformatori Liberali, è parecchia.

Fa caldo, ma ciò non ci impedisce di rimanere ad ascoltare con partecipazione ed entusiasmo le oltre due ore di interventi che si susseguono e il cui tema dominante è appunto quello di riconoscere che la strada per recuperare consenso nel centro destra, in questo momento storico, passa attraverso l’affermazione, con rinnovata determinazione, delle idee liberali e libertarie che avevano costituito il fulcro attorno al quale erano nate Forza Italia e la Casa della Libertà.

La nuova spinta in senso libertario sembra averla data Bondi quando, nella sua relazione al Seminario di Gubbio ha dichiarato che alle ultime elezioni la Casa delle Libertà ha perso non per i circa 24 mila voti di scarto con l'Ulivo, bensì per i quasi 2 milioni di quelli persi da Forza Italia, che sono probabilmente i voti di liberali e libertari, i quali dopo 5 anni di governo di centro destra che certamente non si è distinto nell’applicazione di queste idee, si sono sentiti "traditi" dalla CDL. Benedetto Della Vedova, Marco Taradash e quasi tutti coloro che intervengono, sembrano interpretare la dichiarazione di Bondi come un forte segnale di nuova apertura alle idee liberali che negli ultimi anni, a detta dei partecipanti al dibattito, non hanno trovato spazio nemmeno per un aperto confronto.

La sana iniezione di liberalismo e antistatalismo coinvolge l’intera sala e porta a maturare una forte determinazione nel cercare di sfruttare al meglio quella che sembra una buona opportunità per creare una CDL davvero plurale, nella quale esista uno spazio anche per quest’anima evidentemente a torto dimenticata.

Qualche ora dopo la conclusione della conferenza stampa però, sfumato l’entusiasmo del momento, mi sono interrogata riguardo all’efficacia, sul piano della politico, di questa iniziativa. Pur nella speranza che il manifesto possa rappresentare davvero il nuovo trampolino di lancio per la maggiore diffusione delle idee liberali liberiste libertarie, devo dire che non vedo alcun cambiamento di scenario nel “potere contrattuale” che i Riformatori Liberali hanno nei confronti della CDL, tale da poter determinare la riuscita, questa volta, del progetto. E questa constatazione mi ha lasciato una vena di pessimismo.

Inoltre ho percepito, durante il dibattito di sabato, un forte sbilanciamento verso le libertà dell’individuo sul piano etico rispetto a quelle sul piano economico, partendo dalla constatazione che chi è antistatalista in economia non può non esserlo, per coerenza, riguardo alle scelte degli individui sul piano etico. Personalmente ritengo che insistere sulle idee liberali, per come si configura la situazione della destra attuale, sbilanciata su posizioni quasi confessionali, non sia il modo più efficace per riuscire ad ottenerle: sarebbe invece anzitutto necessario, trovare un terreno comune sul piano del liberismo e dell’antistatalismo economico, senz’altro maggiormente condiviso (almeno in teoria visto che in pratica la CDL ha già dimostrato di non bramare dal desiderio di ridurre il peso dello stato), cavalcando l’onda di malcontento provocato da questa finanziaria.

E non perché le libertà individuali sul piano etico non siano importanti, anzi, ma perché, a mio parere, la strada per raggiungerle sarebbe sicuramente spianata dall’introduzione delle libertà individuali sul piano economico date da uno stato leggero almeno in quest ambito; la diffusione dell’“abitudine” alle libertà che verrebbe a crearsi potrebbe infatti, con molta probabilità, avere come conseguenza un terreno molto più fertile per far attecchire l’accettazione delle libertà sul piano etico in un secondo momento.

In ogni caso però, qualunque sia la strategia politica dei Riformatori Liberali, per raggiungere lo scopo della condivisione anche operativa del liberalismo, del liberismo e dell’anitistatalismo sarebbe stata necessaria quanta più visibilità si riusciva ad ottenere. E quale migliore occasione della partecipazione da parte di Della Vedova al tavolo dei volenterosi organizzato da Capezzone per dimostrare anche urlando, che a destra sono loro a cercare di garantire le idee liberiste e libertarie? Lo spazio mediatico ottenuto da questa iniziativa avrebbe senza dubbio facilitato la dimostrazione, con i fatti, che esiste davvero un’anima libertaria nel centro destra e che i Riformatori potevano esserne il punto di riferimento.
Certo non sarebbe stato facile, certo non è detto che avrebbero ricevuto una visibilità tale da poter davvero diventare questo punto di riferimento, ma non ho dubbi che quanto meno avrebbero ottenuto un po' di pubblicità in più e quindi una più probabile riuscita anche di questa iniziativa.

Purtroppo però questa via per qualche ragione non è stata seguita: forse per non incrinare i rapporti con i radicali di sinistra, forse per mancanza di coraggio o proprio per mancanza di strategia politica…e quella vena di pessimismo si è fatta più forte per la sensazione che la vera occasione per catalizzare l’attenzione dei liberali di destra è stata perduta.

sabato, ottobre 14, 2006

Il Nobel al banchiere dei poveri...schiaffo in faccia al liberismo?

Facendo finata di non vedere la testata del quotidiano sul quale è pubblicato (ovvero Liberazione), consiglio di leggere questo ottimo articolo su cosa sia il microcredito scritto da Sabina Morandi, che ha evidentemente studiato l'epserienza di Yunus e la riporta in modo oggettivo. Peccato, davvero peccato per il titolo che credo e spero non abbia scelto lei dal momento che nello sviluppo del testo non si fa alcun riferimento all'argomento suggerito dal titolo.

Non vedo possibilità di dubbi sul fatto che un premio nobel ad un banchiere che diffonde il sistema capitalistico meritocratico della micro imprenditoria dei poveri tra i poveri che in questo modo hanno l'opportunità di mettere a frutto le loro capacità affrancandosi dalla povertà, non possa in alcun modo essere considerato "uno schiaffo al liberismo"! Per di più se non viene fornita alcuna spiegazione sul motivo di tale astrusa ipotesi nel corpo dell'articolo.

Fossi io l'autrice avrei protestato fortememente nel vedere associato un articolo "tecnico" su come funziona il microcredito ad un titolo che invece dimostra che non ho capito assolutamente nulla di che cosa sia davvero!

Complimenti alla redazione per una così palese dimostrazione di ignoranza anche di fronte all'evidenza di un articolo scritto da un collaboratore, è davvero incredibile la necessità di certa sinistra di far propria qualsiasi storia di successo anche quando è in evidente contraddizione con tutto quello che professa!

venerdì, ottobre 13, 2006

Voglio ricordare questo giorno

Nonostante Krillix nel suo post l'abbia già espresso molto bene, voglio anche io ricordare questo giorno che ha visto attribuire il premio nobel per la pace a Muhammad Yunus, fondatore di Grameen Bank e soprattutto di un modo di fare banca che per chi non vive in un paese in via di sviluppo ha davvero dell'incredibile: il microcredito.

Non ho resistito e ho ceduto alla necessità di dire quanto anche da queste parti Yunus sia apprezzato.
Concedere microcrediti ai più poveri tra i poveri che non possono fornire garanzie per la banca se non quella che da questo credito dipende la loro vita è proprio quello che il grande Yunus si è inventato, dimostrando negli anni che è tutto vero e tutto possibile e addirittura profittevole: il microcredito, che permette ai beneficiari di essere piccoli imprenditori di se stessi e quindi fautori diretti del proprio sostentamento, oltre ad essere a mio parere (anche per esperienza di consocienza diretta) una delle modalità migliori per aiutare le persone ad affrancarsi da situazioni di estrema povertà, senza la necessità di passare attraverso fondi regalati ai governi inefficienti e corrotti dei paesi in via di sviluppo che prosciugano gli aiuti quasi del tutto prima di riversare le briciole in progetti assistenziali, ha tassi di insolvenza estremamente bassi.

Tassi di insolvenza e perdite in caso di insolvenza bassi anche rispetto alle banche "normali" che si tutelano con garanzie soprattutto reali di tutti i tipi, proprio per il fatto che i beneficiari dei microcrediti si sentono soprattutto moralmente in debito verso la banca che in quesi casi ha un ruolo di vera benefattrice. Le persone sentono di non poter tradire la fiducia di chi per primo ha dimostrato di averne in loro.

Ulteriore meccanismo di garanzia atipica è inoltre fornito dalle pressioni che il ruolo ricoperto nella società dalle persone cui viene concesso il microcredito: oltre a non volere tradire la fiducia di chi ha concesso loro il prestito, il deterrente allo spreco improduttivo del denaro prestato e quindi al non ripagamento di questo alla banca è la vergogna del fallimento di fronte ai membri della comunità cui si appartiene.

Il successo di Grameen Bank passa infatti anche e soprattutto attraverso l'analisi sociologica preventiva approfondita della comunità in cui i beneficiari del microcredito vivono, e dei meccanismi di pressione che i rapporti tra i membri della comunità creano in questi. La comprensione della società e delle frizioni psicologiche che questa crea ai destinatari del prestito in modo da trovare chi sono le persone che in questo senso offrono maggiori garanzie sulla restituzione del debito e quindi quale ruolo sociale è più adatto al prestito, e il maggiore fattore di successo di Grameen.

E con la diffusione del microcredito ad un numero sempre più vasto di beneficiari la cosa in assoluto più importante migliore è che si assiste davvero ad un miglioramente delle condizioni di vita delle persone nei paesi in via di sviluppo, e questo è il merito indiscusso di Muhammed Yunus che oggi, con mia grandissima gioia viene giustamente insignito dalla comunità internazionale con il nobel per la pace, che grazie a lui riacquista il suo signifacato.

E siccome è venerdì questa sera brinderò anche a lui.

giovedì, ottobre 12, 2006

La strada verso una società libera


Attenzione: post molto lungo che metterà a dura prova la vostra resistenza fisica!



Foto by E.S. (Brontolo)

Leggendo ieri la decisione del re del Marocco Mohamed VI di imporre il divieto dell’uso del velo (hijab) alle donne, e di cambiare alcune foto sui libri di scuola che le ritraggono perché costume che non rappresenterebbe la generalità della società marocchina, la prima reazione è stata quella di vedere in questo fatto un chiaro passo avanti verso la laicizzazione dello stato e quindi verso una società più libera.

In realtà insieme al compiacimento per una tale decisione, percepivo un misto di disagio che proveniva dal fatto che, come liberale e libertaria convinta, la modalità con cui era stato fatto tale passo verso una maggiore diffusione della libertà, ossia attraverso un’imposizione da parte dello stato, non poteva non farmi riflettere.

In Occidente, dove la democrazia è matura e dove il concetto di libertà di scelta è abbastanza diffuso soprattutto per quanto riguarda le scelte sul piano religioso (dico abbastanza perché spesso, di recente, si assiste in Europa alla pretesa di volere far entrare nelle regole di vita pubblica ciò che dovrebbe attenere soltanto alla sfera privata), stride un poco l’idea che il percorso verso una società libera possa passare attraverso la coercizione da parte dello stato.

Per capire meglio perché istintivamente e giustamente approviamo un comportamento in Marocco che da noi avremmo considerato illiberale, è utile estraniarsi un momento dalle categorie secondo le quali la nostra cultura liberale ci porta a ragionare e cercare di comprendere il più possibile dall'interno le motivazioni che spingono re Mohamed VI a scegliere la strada della legislazione imposta dall’altro (che quindi non è conseguenza degli usi e dei costumi della società, ma cerca di indurli). Dovremmo insomma considerare giusta questa imposizione solo in funzione dell’analisi specifica della società in cui l’imposizione avviene.

Nonostante sia uno dei paesi arabi più all’avanguardia nel processo di laicizzazione dello stato (tralasciando la Turchia che lo ha concluso grazie a Kemal Ataturk e paragonandolo invece alla Giordania che lo sta perseguendo a partire dal regno di re Hussein e ora con il figlio, re Abdallah II), come in tutti i paesi arabi la religione permea ogni aspetto della vita di un individuo. Nelle persone infatti sono talmente radicati gli usi imposti dalla religione che questi non costituiscono mai una scelta personale, bensì una accettazione incondizionata di qualcosa che appare ovvia per tradizione, anche perché non è quasi presente il confronto aperto con esperienze diverse. Se poi si è donne, l’accettazione incondizionata del comportamento indotto dalle regole religiose, passa anche attraverso la coercizione imposta dalla famiglia e soprattutto dagli uomini, coercizione contro la quale, anche nel caso di consapevolezza, è impossibile appellarsi alla libertà scelta.

Ed è proprio in questo contesto che l’imposizione di Mohamed VI di divieto nell’uso del velo si inserisce come evoluzione liberale e direi persino lungimirante.

È una evoluzione in senso liberale proprio perché la coercizione da parte dello stato nel vietare l’uso del velo elimina una coercizione culturale molto più subdola e relega in questo modo la religione a fatto privato: nella vita pubblica è fatto divieto di indossare un indumento che è un chiaro simbolo religioso; in privato naturalmente chiunque potrà fare ciò che crede. È possibile che inizialmente l’applicazione del divieto produca una segregazione ancora più evidente della donna, la quale verrà costretta a muoversi solo all’interno delle mura domestiche, ma per esigenza, si può presumere che piano piano ella comincerà ad uscire e che diverrà fatto normalmente accettato dalla comunità il vederla senza velo.

Al tempo stesso, come dicevo, questa decisione è a mio parere lungimirante in quanto, come nel caso della riforma del diritto di famiglia, Mohamed VI decide che il passo avanti nel processo di modernizzazione della società marocchina deve passare attraverso la tutela del ruolo della donna nella società musulmana, aumentando le libertà ad ella concesse.
Personalmente credo sia la strada giusta, data la centralità del ruolo della donna come struttura portante della famiglia anche nella società musulmana (peraltro riconosciuto dagli stessi uomini musulmani i quali sostengono sempre di averne un rispetto assoluto e totale), nonostante il totale assoggettamento della donna agli uomini di famiglia a causa dell’applicazione delle regole religiose: creando consapevolezza, mettendo le basi per la libertà di scelta tutelata dallo stato per le donne, sarà più semplice la strada verso la libertà. Un’esperienza come quella del microcredito ad esempio, ovvero piccoli crediti concessi a singole persone o gruppi di persone allo scopo di avviare un mestiere per il sostentamento proprio e della propria famiglia, in genere concessi senza garanzie reali se non quelle relative alle pressione che possono fare sull’individuo dalla comunità cui appartiene a causa del ruolo ricoperto, può dare un’idea di quanto le società musulmane si reggano sul ruolo della donna: dove la cultura prevalente è musulmana affinché aumenti la probabilità di restituzione del credito, i crediti vengono concessi per la stragrande maggioranza a donne, perché capaci di pensare in modo non egoistico, a differenza degli uomini, al futuro per lei e per la propria famiglia, attraverso la pianificazione e quindi l’investimento produttivo anziché lo spreco.

Naturalmente la via intrapresa da re Mohamed VI in Marocco, non è la sola via possibile per diffondere la cultura liberale, come in alternativa la Giordania insegna: essendo in questo paese diffuso l’amore e la stima incondizionata per il re, derivante soprattutto dal suo comportamento morigerato e dal contatto continuo con la gente (amore e stima naturalmente conquistata grazie anche al precedente regno di re Hussein), il fatto che il re dia una impronta laica alla sua vita, nella quale la religione è importante, ma è un fatto privato, propone un esempio da emulare e porta quindi la gente a vivere sempre più la religione come fatto altrettanto privato. In Giordania infatti, ad esempio, al richiamo dei muezzin alla preghiera, non si vede la folla muovere verso la moschea, come invece avviene ancora in Marocco, ma singole persone. D’altra parte in Marocco vi è un maggiore contatto con i turisti e quindi con la diversità, tanto da tollerare anche costumi molto diversi dai propri (che naturalmente però non debbono essere seguiti), e forse l’introduzione della legge sul di divieto del velo deriva anche da questa seppur minima contaminazione.

La breve comparazione proposta tra Giordania e Marocco non vuole essere esaustiva e anzi, vi sono senza dubbio altri fattori fondamentali che ne hanno influenzato il processo di laicizzazione, non ultimo ad esempio per la Girdania, gli stretti rapporti con Gran Bretagna e Stati Uniti, ma l’approfondimento di quali siano state le spinte che hanno determinato l’inizio e la prosecuzione del processo verso una società aperta dei due paesi arabi che più di altri cercano in tutti i modi di dimostrare che esiste un islam moderato, meriterebbe un post a se stante. Qui si vuole solamente sottolineare che le strade intraprese per l’avvio del processo di affermazione delle libertà individuali dai due paesi sono differenti e sembrerebbe verosimile un'interpretazione secondo la quale la modernizzazione in Giordania avvenga anche e soprattutto attraverso i costumi e l’esempio nei costumi dato dal re e la legge in seguito si adatta ai costumi moderni, in Marocco (come è già avvenuto in Turchia) attraverso la legislazione imposta dal re e i costumi si adattano di conseguenza.
Ciò che preme sottolineare, è che in entrambi i casi è bene riporre grande fiducia e speranza nella spinta moderata e liberale che questi due esempi di società musulmana cercano di imprimere alla loro società. E il mondo occidentale dovrebbe impegnarsi a sostenere questo processo.

Benvenute quindi a tutte le strade che portano in qualche modo alla libertà, compresa quella che passa attraverso una imposizione!!

PS: tengo a sottolineare che questo post non ha assolutamente la pretesa di esaurire le molte sfaccettature del processo di liberalizzazione iniziato da Marocco e Giordania; vuole solo, con estrema semplificazione, condividere alcune considerazioni fatte in merito a tale processo.

mercoledì, ottobre 11, 2006

Altro esempio di doppiopesismo o solo una coincidenza?

Perché in questo articolo del Corriere in cui si parla del servizio alternativo fatto dalle Iene rispetto a quello della droga in parlamento, e che avrebbe come oggetto la misurazione del livello di cultura generale dei parlamentari, l’unico nome che compare tra tutti i parlamentari intervistati, è quello di Elisabetta Gardini? È una fatalià che sia citato proprio il nome di una parlamentare di Forza Italia?

Ma si, probabilmente il mio divertimento preferito da quando la sinistra è al governo, ovvero il sottolineare l’applicazione della logica del doppiopesismo da parte dei media, mi porta a vederlo anche dove non c’è!!!!

martedì, ottobre 10, 2006

Meno tasse, meno stato, più crescita economica

In questa intervista riportata dall’ Opinione, Grover Norquist descrive brevemente le linee guida della sua azione politica: meno tasse => meno stato => più crescita. In un modo talmente lucido e talmente ovvio da sembrare banale.

In effetti l’ovvietà di questa relazione è senza dubbio condivisa da chi, come me, ha avuto l’opportunità di sentire Norquist dal vivo in una breve tavola rotonda organizzata da Ideazione; da chi, ancora pochi per la verità, a destra condivide le idee liberali liberiste e libertarie; in ultimo, da chi, forse, anche da sinistra intravede la logica consequenziale di questa posizione.

Con altrettanta ovvietà queste persone, come me, intravedono che l’impossibilità per l’Italia di cambiare sta tutta nella scarsa diffusione e soprattutto comprensione della razionalita' di questo meccanismo.

Ancora troppo pochi infatti condividono o comprendono il fatto che eliminare la disponibilità della leva dell’aumento della pressione fiscale porta necessariamente alla riduzione del peso dello Stato: se le tasse non possono essere aumentate e, anzi, vengono diminuite, l’unico modo per non vedere esplodere il deficit è quello di ridurre le spese. Non ci si aspetta che tale riduzione sia immediatamente successiva alla decisione di non aumentare o addirittura ridurre le tasse, ma, dopo un periodo di probabile aumento del deficit, l’unico modo per riportare l’equilibrio nei conti pubblici sarebbe quello di riformare lo Stato, riforma che necessariamente dovrebbe produrre una riduzione del suo peso. La necessità di riduzione delle spese poi, è probabile generi per prima cosa il taglio del sostegno improduttivo all’economia e la riduzione della burocrazia che deriva dalla troppa regolamentazione di questa.

Ma soprattutto pochi comprendono (o vogliono comprendere) il fatto più rilevante, ovvero che il circolo virtuoso innescato dalla riduzione dell’imposizione fiscale, che implica un minore peso dello Stato, avrebbe come effetti immediati da una parte un aumento del reddito disponibile per imprese e persone e, quindi, una maggiore propensione agli investimenti e ai consumi; dall’altra, una sicura riduzione dei prezzi in quanto la tassazione si trasforma sempre in una alterazione (maggiorazione) del prezzo di qualsiasi bene, rispetto al valore che altrimenti si determinerebbe in un mercato libero e concorrenziale.

Naturalmente si può discutere di quanto “minimo” debba essere lo stato, quantificare quindi esattamente quale debba essere la sua presenza e, soprattutto, dove tale presenza debba essere indirizzata, ma sempre dando per scontata la condivisione dell’idea che essa debba essere minima.
Il punto è che purtroppo, siamo ben lungi dal poter discutere, magari tra destra e sinistra, di quantificazione dell'intervento minimo, dal momento che non si condivide, a destra come a sinistra (questa incapacità di abbandonare l’idea di stato paternalista è trasversale purtroppo) nemmeno il fatto che lo stato debba occupare una minima parte delle sfere della vita delle persone.

Ascoltando Norquist ci si scontra palesemente contro questa realtà probabilmente tutta italiana: per mancanza di informazione, per la tutela sempre e comunque prima di tutto dei propri privilegi, per cultura, quando purtroppo per cultura si intende l’accettazione acritica di tutto quello che proviene dall’ideologia dominante dell’ambiente in cui ci si muove, non si riesce nemmeno a condividere l’idea, per quanto ovvia, che meno tasse significano meno stato e meno stato più libertà di azione e di idee, più crescita economica e sociale, maggiore diffusione del benessere.

lunedì, ottobre 09, 2006

La cultura economica prevalente della sinistra italiana

Su segnalazione di alcuni amici che lavorano nel settore, ieri ho dato un’occhiata alla parte del decreto Bersani (DL 223/2006) relativa alle novità per la tassazione degli immobili. In realtà non credevo, dopo lo strafalcione anticostituzionale di Visco sull’impossibilità retroattiva di compensare sugli immobili IVA a credito ed IVA a debito, ci fosse altro da vedere di scandaloso in questa sezione del decreto (Titolo III).

Invece vi leggo che, (parafrasando la norma nel modo letto sulla rivista del collegio dei Geometri Pitagora di settembre 2006), la nuova disposizione all’articolo 35 commi 2-3-4 e 23bis, consente la rettifica diretta d’ufficio –relativamente alle operazioni aventi ad oggetto la cessione di beni immobili e relative pertinenze –della dichiarazione annuale IVA quando il corrispettivo della cessione medesima sia dichiarato in misura inferiore al valore normale del bene. Tale valore normale del bene all’articolo 14 del DPR n. 633 del 1972 cui si rimanda, è definito come:”…il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per beni e servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui è stata fatta l’operazione o nel tempo e nel luogo più prossimi”.

Apriti cielo! Ho dovuto stropicciarmi gli occhi e rileggere ancora un paio di volte per capire ciò che si stava dicendo nella norma: davvero d’ufficio è possibile presumere l’infondatezza della dichiarazione del valore del bene da parte del contribuente/imprenditore edile solo perché tale valore si discosta da quello normale (peraltro non meglio specificate le modalità di calcolo della normalità!) tanto da rettificare, sempre d’ufficio, tale valore e quindi l’entità dell’IVA da pagare? Ho letto bene che si presume che la dichiarazione sia illegittima o addirittura tacciabile di evasione perché il valore considerato normale è superiore al valore dichiarato dal contribuente? Ho letto bene che ciò significa invertire l’onere della prova a carico del contribuente nel momento in cui magari sta solo esercitando il vantaggio competitivo maturato grazie alla maggiore efficienza nel gestire i costi? Con tutto ciò che deriva burocraticamente per un contribuente-lavoratore/imprenditore mettersi contestare tale presunzione da parte del fisco (tempo e denaro)?!?!?

Si, dopo un paio di letture mi rendo conto che ho capito perfettamente: un imprenditore edile è limitato nella possibilità di sfruttare le sue migliori capacità di gestire i costi e quindi di praticare prezzi più bassi facendo concorrenza, giustamente e in teoria esercitando un suo diritto, a chi invece ha una gestione meno efficiente, solo perché, praticando un prezzo concorrenziale rispetto al valore considerato normale (diciamo presumibilmente calcolato come media di cessioni e operazioni fatte in un certo periodo, in aree comparabili (?), per immobili della stessa tipologia) si ritroverà a pagare un’IVA maggiorata in quanto calcolata e rettificata d’ufficio sul valore considerato normale. E l’imprenditore capace, se non è d’accordo con questa rettifica e sempre che abbia la voglia e il tempo di lottare contro i mulini a vento, non potrà far altro che contestare la presunzione provando che il prezzo da lui praticato per quell’ immobile è sostenibile e non è dichiarato solo per evadere parte dell’IVA.

Ecco, in questa norma nascosta in un lungo decreto, relativa peraltro soltanto ad uno specifico settore economico, è racchiuso tutto il portato della cultura economica della sinistra: ledere il più possibile la libera concorrenza tra soggetti economici che, in un mercato nel quale il regime non sia oligopolistico, ha come conseguenza immediata un vantaggio economico palese per il consumatore; imporre a tendere il prezzo da praticare al quale tutti i soggetti economici si adegueranno, con la conseguenza di avvilire l’economia e di portare svantaggi economici a coloro i quali questa sinistra dovrebbe aiutare: le persone, le famiglie che a quel punto dovrebbero comprare casa ad un prezzo che in casi di maggiore efficienza rispetto alla media avrebbe potuto essere decisamente più basso; ancora, promuovere la cultura dell’uguaglianza (non quella delle pari opportunità) a tutti costi, in netto contrasto con la cultura della meritocrazia:non andrà avanti chi nel mercato è più bravo e riesce ad avere maggiori margini con prezzi inferiori, aumentando la quantità venduta e operando contestualmente un beneficio sociale in quanto l’acquirente riuscirebbe a spuntare appunto un prezzo più basso, ma chi sarà più organico al potere e riceverà maggiori aiuti da parte dello stato, rendendo quest’ ultimo sempre più forte e più presente.

Tutto questo alla sinistra attualmente al governo (spero solo a certa sinistra, ma mi pare che coloro che sarebbero d’accordo con questa visione economica non abbiano gran voce in capitolo se permettono di scrivere norme del genere) non interessa, riuscendo solo a vedere come la probabile convergenza dei prezzi degli immobili ad un prezzo unico pari a quello normale a causa dell’applicazione della rettifica d’ufficio, possa determinare un maggiore controllo dell’economia e auspicabilmente (da parte loro) un maggiore appiattimento verso il basso degli slanci individuali e quindi del dinamismo dell’imprenditoria, non essendoci alcun incentivo a fare meglio degli altri.

Per non parlare del fatto, già ampiamente dibattuto in altri contesti, che ancora una volta si presume l’intenzione del contribuente di frodare il fisco nel dichiarare un prezzo più basso per la vendita dell’immobile ai fini del computo dell’IVA.

E questa è la cultura economica della sinistra al governo.

venerdì, ottobre 06, 2006

Effetti diretti e indiretti dell'esproprio del TFR

Come è stato già ampiamente sottolineato in questi giorni, l’avocazione da parte dell’INPS della parte del TFR non convogliata dai dipendenti verso un fondo pensione, priva le imprese di una forma fondamentale di autofinanziamento. Ho letto spesso fornire come risposta a questa obiezione il fatto che tanto, comunque, le imprese avrebbero perso tale forma di autofinanziamento con la riforma relativa alle pensioni integrative, in quanto in ogni caso i soldi del TFR non sarebbero rimasti in azienda. Nel dare questa risposta del tutto superficiale e che dimostra quanto meno una scarsa conoscenza del funzionamento delle imprese in Italia, si dimenticano tre fatti importantissimi:

il primo: mentre la decisione di trasferire il TFR ai fondi pensione, è una scelta del singolo, implicando questo fatto che tale trasferimento sarebbe stato graduale, anche e soprattutto per la poca propensione iniziale dell’Italia all’utilizzo di questi strumenti, l’avocazione da parte dell’INPS della quota non trasferita ai fondi pensione è immediata e tutta in un'unica soluzione, creando una crisi di liquidità per molte aziende;

il secondo: si sottovaluta il tipo di rapporto che intercorre tra dipendente e azienda in una PMI; non sarebbe stato affatto scontato che un dipendente di una PMI decidesse di trasferire i soldi in un fondo anziché tenerli in azienda, in quanto in questi contesti i dipendenti partecipano in maniera proattiva alle scelte aziendali perché dallo stato di salute dell’azienda dipendono sia il loro futuro sia la loro crescita professionale in modo molto più stringente rispetto ad una grande azienda. Tanto più che, per incentivare maggiormente questo comportamento molte imprese si stavano attrezzando per rendere maggiormente vantaggioso non trasferire il TFR.

Il terzo: indipendentemente dai problemi che avrebbe comunque potuto avere una PMI con il trasferimento di parte o tutto il TFR dalle casse aziendali a fondi pensione, si dimentica che esiste una differenza enorme tra il trasferire fondi da un settore produttivo (PMI) ad un altro settore produttivo (fondi pensione, gestione di questi), come sarebbe avvenuto, rispetto al trasferimento da un settore produttivo (sempre PMI) ad uno totalmente improduttivo e economicamente insostenibile come l’INPS. Nel primo caso infatti, il denaro continua a circolare e magari incentiva la crescita di un settore da noi ancora poco diffuso; inoltre con molte probabilità alcuni di questi fondi avrebbero reinvestito nelle aziende nella forma del private equity, veicolando indirettamente il TFR ancora nelle aziende. Nel secondo caso invece l’INPS userà le maggiori entrate per non meglio definiti progetti di sviluppo che, come si è già avuto modo di vedere, di solito non sono né produttivi, né tanto meno in grado di agire efficacemente nel rilancio dell’economia del settore, area geografica, situazione sociale cui vengono indirizzati. Per di più il dipendente non sarà in grado di esercitare alcun tipo di controllo, non potrà dire in nessun modo “visto che non mi piace dove investite mi riprendo i miei soldi e li metto da qualche altra parte”.

Questi gli aspetti immediati e diretti sulle imprese e sul sistema produttivo dell’avocazione della parte del TFR non convogliato verso i fondi pensione da parte dell’INPS, ma vi sono anche effetti indiretti altrettanto negativi che metteranno le imprese ancor più in difficoltà: si tratta dell’entrata in vigore, nel 2008 dell’Accordo Internazionale sul Capitale Regolamentare delle banche, comunemente denominato Basilea 2.
Vorrei anzitutto sottolineare che, nonostante al 2008 manchi ancora oltre un anno, la realtà è che, per poter raggiungere gli obiettivi richiesti alle banche a quella data, le stesse già utilizzano a tutti gli effetti le regole dettate dalla normativa comunitaria nel processo decisionale di erogazione del credito.
Poiché Basilea 2, impone alle banche di quantificare il rischio legato ai soggetti economici ai quali viene concesso credito, e determinando la novità sul TFR una diminuzione della capacità di autofinanziamento dell’azienda, a parità di altre condizioni, si può pensare che il rischio legato all’impresa aumenterà, determinando come effetto indiretto appunto, la minore capacità della stessa di ottenere credito in un momento, sempre a causa della mancanza di tale forma di autofinanziamento, in cui si troverà ad averne davvero bisogno. In ultimo, tale difficoltà generalizzata in tutto il comparto delle piccole e medie imprese nell’ottenere credito a causa dell’aumentato rischio creerà le condizioni per un maggiore tasso di fallimento a livello di sistema, indicatore, tra gli altri di recessione economica.

Ma vediamo più in dettaglio come agisce Basilea 2 e soprattutto come sia possibile che si determini lo scenario sopra descritto.

Come dicevo sopra, Basilea 2 altro non è che un accordo internazionale sul livello di capitale regolamentare che le banche devono detenere a fronte dei rischi assunti nel perseguimento del loro business principale, ovvero quello di prestare denaro. Il fatto che esita un 2, dipende dal fatto che vi è stata nel tempo (il primo accordo risale all’89) una evoluzione della metodologia di calcolo di tale capitale regolamentare, con il duplice scopo di meglio tutelare i risparmiatori assicurando maggiore stabilità al sistema bancario, e soprattutto di permettere una più puntuale e precisa quantificazione di tale capitale, che rimane inutilizzato al fine di tutela dei risparmiatori, ma che rappresenta proprio per questo un costo per la banca la quale non potrà farlo fruttare (rinunciando ad un possibile utile).
Essendo il livello di capitale da detenere secondo le regole del primo accordo, molto rigido e non differenziato per l’effettivo rischio assunto, le banche che assumevano rischi “bassi” in quanto prestavano a soggetti economici in salute dovevano detenere lo stesso livello di patrimonio inutilizzato di una banca che invece deteneva un portafoglio di rischi decisamente più elevati prestando invece a soggetti economici in stato di forte stress. Il secondo accordo di Basilea corregge quindi questo effetto distorsivo del mercato del credito raggiungendo l’obiettivo di premiare le banche che meglio sono in grado di gestire il rischio.
Ma da cosa dipende la quantificazione del capitale regolamentare?
Cercando di semplificare il più possibile, diciamo che dipende essenzialmente dalla probabilità di insolvenza dei soggetti economici ai quali la banca presta denaro: maggiore è la probabilità di insolvenza ad un anno di una impresa, maggiore sarà la probabilità di perdita legata al prestito concesso e maggiore sarà il capitale regolamentare che la banca dovrà detenere.
La probabilità di insolvenza di una impresa viene stimata con i modelli di rating, modelli statistici considerano, tra le altre ma in p modo preponderante, informazioni relative all’andamento dei conti utilizzati dall’impresa presso la banca stessa e informazioni relative ai più significativi indicatori economico-finanziari dell’impresa, che in generale sono legati alla capacità di creare reddito, al livello del debito sia a medio-lungo che a breve termine, alla liquidità con la quale eventualmente far fronte a periodi di stress, al livello di patrimonializzazione.
Ed è proprio qui che si innesta l’effetto indiretto provocato dal prelevamento forzoso del TFR dall’azienda per rimpinguare le casse senza fondo dell’INPS. Vediamo come.
L’azienda si ritroverebbe (parlo al condizionale perché spero ancora che il governo non proceda in questa direzione) a non avere più a disposizione quel denaro che in genere le serviva per il finanziamento del circolante (ovvero per ripagare i debiti a breve termine). Ciò implicherebbe una bisogno immediato di liquidità cui far fronte attraverso il maggior utilizzo delle linee già concesse dalla banca, se esiste un margine di credito accordato da poter ancora utilizzare, e/o attraverso la richiesta di nuove linee di credito a breve (tendenzialmente le più rischiose per la banca). Il primo comportamento avrebbe un effetto negativo sul rating dell’azienda in quanto maggior tiraggio indica statisticamente una situazione di tensione dell’impresa e dunque una maggiore probabilità di insolvenza della stessa a parità di altre condizioni; il secondo comportamento innescherebbe un circolo vizioso per il quale l’azienda in difficoltà finanziarie (minore liquidità o, in molte situazioni, crisi di liquidità) che richiede la nuova linea, la richiede da una situazione svantaggiata rispetto a prima in quanto ora il suo rating (giudizio della banca sul rischio legato all’impresa) sarà peggiore.
Le banche a loro volta, valutando il maggior rischio legato all’impresa, avrebbero maggiori difficoltà nel concederglielo, e se comunque decidessero di erogarlo (come immagino avverrà) il costo per l’azienda (essendo anche il prezzo cui è concesso il credito parametrato giustamente al livello di rischio che la banca si assume nel concederlo) sarebbe nettamente superiore a quello che avrebbe spuntato prima della manovra sul TFR per una linea analoga, ma soprattutto sarebbe molto maggiore rispetto all’utilizzo dell’autofinanziamento sotto forma di TFR.
Nella piccole medie imprese in cui l’imprenditore tendenzialmente di lavoro fa il giocoliere per cercare in tutti i momenti di far quadrare i conti, credete che la cancellazione, dalla sera alla mattina di una tale risorsa e il relativo aumento dei costi di finanziamento che impattano questa volta sulla capacità di creare reddito, non creino le condizioni per un maggiore tasso di insolvenza del segmento a livello nazionale, minando quindi dalla radice il sistema produttivo italiano?
Io credo di si e sono certa che il ministro dell’economia che ieri in una intervista sul Sole 24 ore si lamentava del fatto che le aziende non si rendono conto di quanto la finanziaria le aiuti avendo ridotto con il cuneo fiscale il costo del lavoro, sappia perfettamente che se avesse agito tramite concertazione, le aziende avrebbero preferito tenersi il TFR e rinunciare al cuneo fiscale. Per lo meno la stragrande maggioranza di quelle che non rappresentano enormi carrozzoni già per altro ampiamente aiutate dal governo.

giovedì, ottobre 05, 2006

Un sogno (ancora sulla finanziaria)

Devo ammetterlo, in questi giorni la finanziaria e il conseguente impatto di dimensione incerta ma di segno (negativo) certo sulla gente e sul paese, è il mio pensiero dominante. In sua compagnia mi ci sveglio al mattino, la sera è l’ultimo pensiero lucido, a volte arriva pure nel sogno, ad angosciarmi o a cogliermi di sorpresa tanto e come solo i sogni sanno fare: la sorpresa questa volta è venuta dalla visione di una manifestazione di piazza talmente vasta da contenere tutte le bandiere di tutti i partiti che hanno in nuce anche un solo respiro di liberalismo, siano essi di destra o di sinistra...io partecipavo e guardavo stupita tanta partecipazione per l’ obiettivo comune di dare una impronta liberale a questa finanziaria, con quella sensazione nello stomaco che puoi avere solo quando credi di stare partecipando ad un evento che potrebbe definirsi storico.

Si lo so a volte pure io mi lascio permeare dal buonismo, soprattutto nel torpore avvolgente dei sogni. Ma se la sensazione del sogno è particolarmente bella, come è accaduto questa notte, essa permane anche il giorno dopo e così oggi mi induce a sperare che una tale situazione possa verificarsi anche nella realtà: il superamento delle molte diversità di fronte al fine, trasversale rispetto all’appartenenza a diversi schieramenti, di impedire l’attuazione di questa finanziaria, che porta con sé la chiara affermazione di imposizione del ruolo dello stato sopra a tutto e tutti, come entità per se, indipendente dal volere e dai bisogni dei cittadini, indipendente dal livello di efficienza dei servizi che dovrebbe fornire agli stessi, i quali hanno il diritto e il dovere di intervenire in qualche modo quando tale livello non è più ottimale (ben lungi dall’esserlo anche prima, ma oggi la percezione dello stato dirigista e decisionista persino sul gusto estetico della gente appare con una forza impressionante).

Poi leggo che Daniele Capezzone propone la formazione di un tavolo trasversale dei volonterosi che facciano una proposta di variazione sostanziale della finanziaria e mi sembra che quasi il sogno si avveri, che la situazione sia talmente insostenibile che urge un coordinamento che va oltre le pur importanti differenze…ancora probabilmente sulla scia dell’effetto-sogno, per il quale le cose più assurde sembrano possibili, sono portata a credere che l’assurdità di questa finanziaria renderà reale la comprensione, da parte di un sempre più elevato numero di persone, che uno stato elefantiaco non è una necessità per stare bene, soprattutto se il governo in carica palesemente non lo utilizza a questo scopo; e non è una verità incontrovertibile: il modo per raggiungere i parametri europei non necessariamente è l’aumento dell’imposizione fiscale già piuttosto elevata. Perché altrimenti questa è la prova certa dell’inefficienza dell’apparato statale che continua ad esigere senza nulla o quasi dare, un apparato che un buon governo responsabile a questo punto dovrebbe migliorare in modo strutturale.

Se poi tutto questo è corredato dalle bugie sulla situazione dei conti del governo e del ministro dell’economia il quale, contraddicendosi, in parlamento sostiene che Tremonti ci ha lasciato un’eredità maligna e sulla stampa estera che invece l’ultima finanziaria Tremonti era stata molto rigorosa, la situazione dovrebbe essere considerata insostenibile da parte di qualsiasi cittadino che ormai ha fatto propria la consapevolezza che se lo stato deve (?) rimanere pesante, almeno non gravi su di loro.
A questo proposito giova ricordare che il “terribile” governo Berlusconi, il quale ha aumentato la spesa pubblica e per questo non è senz’altro da applaudire, quanto meno e in una situazione di recessione economica, è riuscito a diminuire le tasse di circa 2 punti percentuali, lasciando in eredità al centro sinistra non la situazione penosa che bugiardamente viene descritta, ma addirittura maggiori entrate (dimostrando per altro che l’aumento delle entrate non passa necessariamente attraverso la lotta all’evasione, ma anche e soprattutto attraverso la riduzione dell’imposizione fiscale, che rende meno conveniente ricorrere all’evasione, la quale ha dei costi sociali ma soprattutto reali) e un’economia in lieve ripresa. Serve quindi tartassare i cittadini con maggiori tasse quando basterebbe un intervento strutturale sulla spesa pubblica? E se davvero non si può intervenire solo in questo senso perché gli interessi in gioco sono troppi, non dovrebbero almeno i sacrifici essere richiesti a tutti e quindi anche all’apparato statale? Non foss’altro che per la tanto pubblicizzata equità.

Se invece i sacrifici vanno in un’unica direzione, allora dovrebbe apparire chiaro a tutti, con la disarmante chiarezza di un sogno, sia a destra che a sinistra, che è necessaria la manifestazione palese del nostro scontento.

martedì, ottobre 03, 2006

IL Centro Destra si sbrighi a decidere di fare opposizione vera

Oggi su Repubblica una istruttiva intervista a Vincenzo Visco con un titolo assolutamente emblematico e apparentemente bugiardo come bugiarda è stata la campagna elettorale:

"Tra un anno restituiremo i soldi che chiediamo oggi"

e invece no, sono portata a credere davvero che questo governo riuscirà a farlo, per semplice strategia politica: il primo paio d’anni spremerà il più possibile, anche semmai creando malcontento (l’unico rischio è quello che la maggioranza possa sfaldarsi e il governo cadere, ma in questi mesi Prodi ha tastato il terreno più volte e avuto quindi la certezza che la maggioranza è ben salda ai sui posti di comando), poi invertirà il senso di marcia e comincerà a fare concessioni. Prima minime, poi sempre più evidenti, fino al chiarissimo e più importante segnale: abbassare le tasse, ma in modo reale e relativamente consistente un anno e mezzo massimo due prima della nuova campagna elettorale, in modo tale che il paese ne possa toccare con mano i benefici già durante la campagna stessa, la quale irreversibilmente porterà nuovamente alla vittoria il centro sinistra.

Perché? Perché l’inversione di marcia e quindi la riduzione della pressione fiscale, a quel punto non riguarderà soltanto chi per cultura ha sempre guardato a sinistra, ma anche e soprattutto il ceto medio tanto bastonato con questa finanziaria, ceto medio che spesso corrisponde anche al sistema produttivo dell’Italia.
E allora, inesorabilmente, la vittoria sarà del centro sinistra, vittoria che, se riusciranno a concretizzare tale strategia, sarà senz'altro meritata per evidente superiorità nella gestione e nel mantenimento del potere politico... la memoria degli italiani nel momento del voto ricorderà soltanto il fatto che le tasse sono diminuite durante i 5 anni del governo Prodi.

L’opposizione di centro destra ricordi le molte analisi politiche di questi mesi che indicano chiaramente come la sinistra non difetti certo di capacità politica: sviluppo, crescita e gestione del consenso a livello territoriale capillare, gestione e mantenimento del potere. Le parole di Visco in questa intervista sono una lezione palese di questa capacità.

A questo punto mi pare di riconoscere in modo chiaro che quella che oggi si presenta nelle vesti di una finanziaria fin troppo dura, e dura davvero per tutti, è forse l'ultima occasione da sfruttare da parte del centro destra per ergersi a rappresentante del malcontento generalizzato, con determinata contrapposizione al governo. Evitando di continuare a ventilare l’ipotesi di improbabili manifestazioni di piazza che le stesse analisi politiche di cui sopra indicano come non congeniali al popolo di centro destra, ma con proposte alternative su cui cercare consenso semmai anche all'interno dell'ala riformista di sinistra. Rigorosamente dopo, e solo dopo aver fatto sentire il peso politico che l’opposizione realmente si trova ad avere in parlamento.

Pena la perdita della probabile ultima occasione per riaffermare le idee liberali liberiste e libertarie (che a dire il vero non credo alberghino in modo predominante in questo centro destra) per molto molto tempo.

Pena l’appiattimento verso il basso della società con la sparizione del ceto medio produttivo, come Visco stesso afferma, indicando però la causa di tale sparizione a fattori che sono la diretta conseguenza della politica economica di questo governo (ed è gravissimo che non se ne renda conto o ancor peggio che lo sappia e demagogicamente dica che in realtà le politiche fiscali del governo lo aiutano):

"Io credo che il rischio vero, per il ceto medio, sia la scomparsa. Schiacciato tra l'impoverimento dovuto al crollo della produttività sul gradino più basso, e l'arricchimento senza freni delle categorie più abbienti al gradino più alto. Per questo l'intervento di redistribuzione che abbiamo fatto non penalizza, ma semmai aiuta il ceto medio".

Questa è davvero una brutta, brutta finanziaria.
Dico la verità, un poco ci speravo che fosse vero quanto letto su più fronti che le riforme di destra in Italia le potesse fare solo un governo di sinistra…speravo che accadesse davvero e che ci saremmo ritrovati magari con più tasse da pagare (del resto l’utilizzo della tassazione in modo pesante nella politica economica è sempre stata nel dna di Padoa Schioppa e senza dubbio anche in quello di Visco), ma almeno con una riforma decente (anche se non ottimale) del sistema pensionistico, con un’altra decente riorganizzazione della spesa pubblica snellendo almeno un poco lo stato ecc… ci avevo quasi creduto quando ho letto su media schierati a sinistra suggerimenti di questo tipo, e invece no, niente neanche questa volta, solo ed esclusivamente più tassazione certa con qualche davvero incerto beneficio ancora tutto da quantificare nell’effetto totale.

E allora con tutto ciò a cui ci si può aggrappare per fare opposizione dura perché tanta indecisione, tanto tentennamento da parte del centro destra? Spero mi sfugga qualcosa riguardo alla strategia dell’opposizione, ma ho paura che in realtà ci sia solo quel che appare: confusione. E ripeto, date le parole di Visco, questa è forse l’ultima importante occasione per provare a cambiare il corso degli eventi che fino ad ora non pare abbia trovato particolari ostacoli.

Spero che l’opposizione si faccia impaurire dalle parole di Visco abbastanza da svegliarsi dallo stato di torpore che si è impadronito di lei dopo la sconfitta elettorale. Dice Visco:

"Già a partire dalla Finanziaria dell'anno prossimo, mi impegno a ridurre ulteriormente le tasse, per tutti, e a restituire anche gli aggravi decisi quest'anno. Concentrerò le ulteriori riduzioni sull'Irpef, completando la riforma appena avviata, con un'attenzione specifica per gli incapienti e per i livelli medi. Ma lo ripeto, perché questo sia possibile occorre che tutti facciano il loro dovere. E che il Paese ritrovi la spinta morale, oltre che la crescita economica e la stabilità politica"

queste parole indicano la chiara e assolutamente percorribile strada che questo governo vuole intraprendere, con la certezza che così potrà vincere anche alle prossime elezioni, l’opposizione è davvero sicura che superata questa disastrosa finanziaria, indicata come tale anche da parte della sinistra, ci saranno altre occasioni di spaccatura sociale tanto forti da poter cavalcare e sperare di volgere le condizioni politiche a favore del centro destra?

Io ho paura di no.

lunedì, ottobre 02, 2006

Un paio di conti

Questa mattina in ufficio mi sono divertita a vedere di quanto sarebbe aumentata la tassazione per all’interno dei vari scaglioni per i quali cambiano le aliquote IRPEF ed il risultato, come del resto immaginavo, è inquietante:

Reddito Lordo/regime fiscale precedente/regime fiscale finanziaria 2007/differenza tra regime fiscale finanziaria 2007 e regime fiscale precedente/aumento dell’aliquota marginale
15000 / 3450 / 3450 /+0 /+ 0% (del reddito lordo)
20000 / 4600 / 4800 /+200/+1,00%
25000 / 5750 / 6150 /+400/+1,60%
30000 / 7300 / 7720 /+420/+1,40%
35000 / 9040 / 9620 /+580/+1,66%
40000 /10990/11520/+530/+1,32%
45000 /12940/13420/+480/+1,06%
50000 /14890/15320/+430/+0,86%
55000 /16840/17220/+380/+0,69%
60000 /18790/19270/+480/+0,80%
65000 /20740/21320/+580/+0,89%
70000 /22690/23370/+680/+0,97%
75000 /24640/25420/+780/+1,04%

inquietante perché guardando i numeri mi domando: ma chi è che dovrebbe beneficiare di questa novità della Finanziaria 2007, la Finanziaria dell’equità e della redistribuzione del reddito?

Dunque, due conti della serva sulla carta da formaggio (d’accordo ho usato excel, è più semplice!) mi dicono che chiunque con un reddito annuo lordo a partire da oltre 15 mila euro ci perde qualcosa. Il qualcosa più sostanzioso è quello per le fasce di reddito indicate nella tabella.

Il dibattito sulla stampa si è focalizzato sui redditi superiori a 75 mila euro per i quali l’aliquota arriverà al 43%, che è davvero un salasso; a quanto pare però, e credo interessi un poco a tutti, l’aumento non riguarda solo costoro, ma anche chi certo non si può annoverare tra il ceto medio, a meno di non avere un’idea di tale categoria decisamente ampia e non correlata alla realtà italiana.

Prodi e Padoa Schioppa si stracciano le vesti nel ripetere che le promesse sono state mantenute e la Finanziaria 2007 persegue l’equità sociale, ma a me non riesce ad essere chiaro chi beneficerà di tale presunta equità. Dimostrato, numeri alla mano, che non ne beneficia chi ha un reddito lordo superiore a 20 mila euro, so per certo che è stata aumentata la no tax area da 250 a 500 euro. Bene, ne sono davvero felice, ma siamo sicuri che cotanto sforzo (a mio parere senza dubbio utile e forse doveroso) non potessero essere raggiunto in altro modo? Tanto più che per tutti (e quindi non solo per il cosiddetto ceto medio estendibile come dimostrato a redditi a dir poco bassini) e quindi anche per i “poveri” vi sarà l’aumento del ticket, l’aggravio della tassazione sulle rendite finanziarie (e quindi, anche sui titoli di stato notoriamente acquistati non da chi ha un grosso patrimonio, il quale generalmente si affida alla gestione individuale da parte di investitori specializzati che non acquistano certo bot, ma da chi ha qualche risparmio in banca), i tagli ai trasferimenti dallo stato ai comuni e alle regioni i quali, per far fronte alla spesa faranno leva sulle imposte da loero controllate, l’aumento dell’imposta di registro per il trasferimento di una casa anche da padre a figlio, l’aumento dell’imposta sulle donazioni e, infine, ricordando l’elevata percentuale di possessori di casa in Italia, l’impatto di sicuro aumento dell’ICI a fronte del trasferimento del catasto ai comuni che aggiorneranno le stime.

Dove risiede la compensazione a tutto ciò? Solo sull’innalzamento della no tax area? Mi sembra davvero un po’ pochino.
Qualcuno dice che con la nuova Finanziaria, le deduzioni vengono sostituite dalle detrazioni, le quali, agendo direttamente sull’ammontare da pagare e non quindi sull’imponibile, decreterebbero un beneficio netto per chi ha familiari a carico. Ben venga la detrazione, ancora però ho forti dubbi sull’effetto netto di tutte queste imposte certe e benefici ipotetici, e già questo fatto mi pare degno di nota negativa.

L’incertezza non giova in economia, mai, e come ho già avuto modo di dire, non sapere a cosa si va incontro non permette di fare piani per il futuro né agli individui, determinando un livello crescente di consumi, né alle aziende che avranno difficoltà a programmare investimenti e quindi sviluppo (dell’incertezza creata dalla Finanziaria per le aziende ho già avuto modo di dire).