Come è stato già ampiamente sottolineato in questi giorni, l’avocazione da parte dell’INPS della parte del TFR non convogliata dai dipendenti verso un fondo pensione, priva le imprese di una forma fondamentale di autofinanziamento. Ho letto spesso fornire come risposta a questa obiezione il fatto che tanto, comunque, le imprese avrebbero perso tale forma di autofinanziamento con la riforma relativa alle pensioni integrative, in quanto in ogni caso i soldi del TFR non sarebbero rimasti in azienda. Nel dare questa risposta del tutto superficiale e che dimostra quanto meno una scarsa conoscenza del funzionamento delle imprese in Italia, si dimenticano tre fatti importantissimi:
il primo: mentre la decisione di trasferire il TFR ai fondi pensione, è una scelta del singolo, implicando questo fatto che tale trasferimento sarebbe stato graduale, anche e soprattutto per la poca propensione iniziale dell’Italia all’utilizzo di questi strumenti, l’avocazione da parte dell’INPS della quota non trasferita ai fondi pensione è immediata e tutta in un'unica soluzione, creando una crisi di liquidità per molte aziende;
il secondo: si sottovaluta il tipo di rapporto che intercorre tra dipendente e azienda in una PMI; non sarebbe stato affatto scontato che un dipendente di una PMI decidesse di trasferire i soldi in un fondo anziché tenerli in azienda, in quanto in questi contesti i dipendenti partecipano in maniera proattiva alle scelte aziendali perché dallo stato di salute dell’azienda dipendono sia il loro futuro sia la loro crescita professionale in modo molto più stringente rispetto ad una grande azienda. Tanto più che, per incentivare maggiormente questo comportamento molte imprese si stavano attrezzando per rendere maggiormente vantaggioso non trasferire il TFR.
Il terzo: indipendentemente dai problemi che avrebbe comunque potuto avere una PMI con il trasferimento di parte o tutto il TFR dalle casse aziendali a fondi pensione, si dimentica che esiste una differenza enorme tra il trasferire fondi da un settore produttivo (PMI) ad un altro settore produttivo (fondi pensione, gestione di questi), come sarebbe avvenuto, rispetto al trasferimento da un settore produttivo (sempre PMI) ad uno totalmente improduttivo e economicamente insostenibile come l’INPS. Nel primo caso infatti, il denaro continua a circolare e magari incentiva la crescita di un settore da noi ancora poco diffuso; inoltre con molte probabilità alcuni di questi fondi avrebbero reinvestito nelle aziende nella forma del private equity, veicolando indirettamente il TFR ancora nelle aziende. Nel secondo caso invece l’INPS userà le maggiori entrate per non meglio definiti progetti di sviluppo che, come si è già avuto modo di vedere, di solito non sono né produttivi, né tanto meno in grado di agire efficacemente nel rilancio dell’economia del settore, area geografica, situazione sociale cui vengono indirizzati. Per di più il dipendente non sarà in grado di esercitare alcun tipo di controllo, non potrà dire in nessun modo “visto che non mi piace dove investite mi riprendo i miei soldi e li metto da qualche altra parte”.
Questi gli aspetti immediati e diretti sulle imprese e sul sistema produttivo dell’avocazione della parte del TFR non convogliato verso i fondi pensione da parte dell’INPS, ma vi sono anche effetti indiretti altrettanto negativi che metteranno le imprese ancor più in difficoltà: si tratta dell’entrata in vigore, nel 2008 dell’Accordo Internazionale sul Capitale Regolamentare delle banche, comunemente denominato Basilea 2.
Vorrei anzitutto sottolineare che, nonostante al 2008 manchi ancora oltre un anno, la realtà è che, per poter raggiungere gli obiettivi richiesti alle banche a quella data, le stesse già utilizzano a tutti gli effetti le regole dettate dalla normativa comunitaria nel processo decisionale di erogazione del credito.
Poiché Basilea 2, impone alle banche di quantificare il rischio legato ai soggetti economici ai quali viene concesso credito, e determinando la novità sul TFR una diminuzione della capacità di autofinanziamento dell’azienda, a parità di altre condizioni, si può pensare che il rischio legato all’impresa aumenterà, determinando come effetto indiretto appunto, la minore capacità della stessa di ottenere credito in un momento, sempre a causa della mancanza di tale forma di autofinanziamento, in cui si troverà ad averne davvero bisogno. In ultimo, tale difficoltà generalizzata in tutto il comparto delle piccole e medie imprese nell’ottenere credito a causa dell’aumentato rischio creerà le condizioni per un maggiore tasso di fallimento a livello di sistema, indicatore, tra gli altri di recessione economica.
Ma vediamo più in dettaglio come agisce Basilea 2 e soprattutto come sia possibile che si determini lo scenario sopra descritto.
Come dicevo sopra, Basilea 2 altro non è che un accordo internazionale sul livello di capitale regolamentare che le banche devono detenere a fronte dei rischi assunti nel perseguimento del loro business principale, ovvero quello di prestare denaro. Il fatto che esita un 2, dipende dal fatto che vi è stata nel tempo (il primo accordo risale all’89) una evoluzione della metodologia di calcolo di tale capitale regolamentare, con il duplice scopo di meglio tutelare i risparmiatori assicurando maggiore stabilità al sistema bancario, e soprattutto di permettere una più puntuale e precisa quantificazione di tale capitale, che rimane inutilizzato al fine di tutela dei risparmiatori, ma che rappresenta proprio per questo un costo per la banca la quale non potrà farlo fruttare (rinunciando ad un possibile utile).
Essendo il livello di capitale da detenere secondo le regole del primo accordo, molto rigido e non differenziato per l’effettivo rischio assunto, le banche che assumevano rischi “bassi” in quanto prestavano a soggetti economici in salute dovevano detenere lo stesso livello di patrimonio inutilizzato di una banca che invece deteneva un portafoglio di rischi decisamente più elevati prestando invece a soggetti economici in stato di forte stress. Il secondo accordo di Basilea corregge quindi questo effetto distorsivo del mercato del credito raggiungendo l’obiettivo di premiare le banche che meglio sono in grado di gestire il rischio.
Ma da cosa dipende la quantificazione del capitale regolamentare?
Cercando di semplificare il più possibile, diciamo che dipende essenzialmente dalla probabilità di insolvenza dei soggetti economici ai quali la banca presta denaro: maggiore è la probabilità di insolvenza ad un anno di una impresa, maggiore sarà la probabilità di perdita legata al prestito concesso e maggiore sarà il capitale regolamentare che la banca dovrà detenere.
La probabilità di insolvenza di una impresa viene stimata con i modelli di rating, modelli statistici considerano, tra le altre ma in p modo preponderante, informazioni relative all’andamento dei conti utilizzati dall’impresa presso la banca stessa e informazioni relative ai più significativi indicatori economico-finanziari dell’impresa, che in generale sono legati alla capacità di creare reddito, al livello del debito sia a medio-lungo che a breve termine, alla liquidità con la quale eventualmente far fronte a periodi di stress, al livello di patrimonializzazione.
Ed è proprio qui che si innesta l’effetto indiretto provocato dal prelevamento forzoso del TFR dall’azienda per rimpinguare le casse senza fondo dell’INPS. Vediamo come.
L’azienda si ritroverebbe (parlo al condizionale perché spero ancora che il governo non proceda in questa direzione) a non avere più a disposizione quel denaro che in genere le serviva per il finanziamento del circolante (ovvero per ripagare i debiti a breve termine). Ciò implicherebbe una bisogno immediato di liquidità cui far fronte attraverso il maggior utilizzo delle linee già concesse dalla banca, se esiste un margine di credito accordato da poter ancora utilizzare, e/o attraverso la richiesta di nuove linee di credito a breve (tendenzialmente le più rischiose per la banca). Il primo comportamento avrebbe un effetto negativo sul rating dell’azienda in quanto maggior tiraggio indica statisticamente una situazione di tensione dell’impresa e dunque una maggiore probabilità di insolvenza della stessa a parità di altre condizioni; il secondo comportamento innescherebbe un circolo vizioso per il quale l’azienda in difficoltà finanziarie (minore liquidità o, in molte situazioni, crisi di liquidità) che richiede la nuova linea, la richiede da una situazione svantaggiata rispetto a prima in quanto ora il suo rating (giudizio della banca sul rischio legato all’impresa) sarà peggiore.
Le banche a loro volta, valutando il maggior rischio legato all’impresa, avrebbero maggiori difficoltà nel concederglielo, e se comunque decidessero di erogarlo (come immagino avverrà) il costo per l’azienda (essendo anche il prezzo cui è concesso il credito parametrato giustamente al livello di rischio che la banca si assume nel concederlo) sarebbe nettamente superiore a quello che avrebbe spuntato prima della manovra sul TFR per una linea analoga, ma soprattutto sarebbe molto maggiore rispetto all’utilizzo dell’autofinanziamento sotto forma di TFR.
Nella piccole medie imprese in cui l’imprenditore tendenzialmente di lavoro fa il giocoliere per cercare in tutti i momenti di far quadrare i conti, credete che la cancellazione, dalla sera alla mattina di una tale risorsa e il relativo aumento dei costi di finanziamento che impattano questa volta sulla capacità di creare reddito, non creino le condizioni per un maggiore tasso di insolvenza del segmento a livello nazionale, minando quindi dalla radice il sistema produttivo italiano?
Io credo di si e sono certa che il ministro dell’economia che ieri in una intervista sul Sole 24 ore si lamentava del fatto che le aziende non si rendono conto di quanto la finanziaria le aiuti avendo ridotto con il cuneo fiscale il costo del lavoro, sappia perfettamente che se avesse agito tramite concertazione, le aziende avrebbero preferito tenersi il TFR e rinunciare al cuneo fiscale. Per lo meno la stragrande maggioranza di quelle che non rappresentano enormi carrozzoni già per altro ampiamente aiutate dal governo.